Oltre il 55% dei pazienti con sclerosi multipla rivelano avere i vasi sanguigni del cervello ristretti rispetto al normale.
Un’anomalia scoperta in una recente ricerca condotta da ricercatori dell’Università di Buffalo, e che potrebbe in qualche modo essere associata alla sclerosi multipla, anche se gli esperti sostengono che sono dati ancora troppo parziali per poterlo affermare con assoluta certezza.
I risultati provengono da una serie di esami compiuti su 500 individui affetti da sclerosi multipla e da 161 individui sani coinvolti come gruppo di controllo.
Il team di ricercatori ha utilizzato l’ecodoppler per esaminare il flusso di sangue venoso nei pazienti in diverse posture, e la risonanza magnetica per individuare, nel cervello, i depositi di ferro.
L’anomalia è stata trovata nel 56,4% dei pazienti con sclerosi multipla e nel 22,4% dei pazienti sani.
Nel loro studio, i ricercatori statunitensi hanno voluto verificare una teoria, avanzata da un ricercatore italiano, il Dott. Paolo Zamboni, secondo il quale il 90% dei casi di sclerosi multipla è causato dalla riduzione delle vene nel cervello.
Queste impedirebbero al sangue di circolare abbastanza velocemente, e ciò causerebbe come conseguenza il danneggiamento del cervello, causato dall’accumulo di ferro. Una delle sperimentazioni effettuate dallo studioso italiano è stata proprio il tentativo di allargare le vene nei tessuti cerebrali.
La più importante organizzazione britannica sulla sclerosi multipla, la MS Society, afferma che sebbene i risultati possano essere interessanti non ci sono ancora prove evidenti di un legame tra la presenza di vene ridotte nel cervello e sclerosi multipla.
Sebbene le persone affette dal male possono mostrare con evidenza un’insufficienza venosa cronica cerebrospinale negli studi di screening, non c’è ancora alcuna certezza che questa sia una delle cause della sclerosi multipla, e nemmeno che un trattamento terapeutico volto a risolvere tale insufficienza possa essere di aiuto nel curare il male.
Secondo Robert Zivadinov, il leader dell’equipe medica che ha condotto lo studio, i risultati sono comunque da prendere in considerazione, con cauto ottimismo.
Sebbene infatti essi non diano la certezza di un legame, l’associazione è comunque evidente.
Il prossimo passo, conclude, sarà appunto quello di verificare compiutamente quanto e come questo legame possa essere effettivamente importante, e soprattutto se mirati trattamenti terapeutici in questa direzione potrebbero dare risultati positivi.
Fonte BBCNews